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RENZO
BERTOLDO

G

“INCIPIT E COACERVI”

PER CORO MISTO

Genesi di un libro

Le motivazioni a riesumare e trasformare i resti di questi corpi organici le trovo nelle pieghe della loro origine: fanno tutti parte di un passato che li ha visti venire al mondo, pur in momenti diversi, come manoscritti, creature viventi fatte di carta e inchiostro, fecondate alla vecchia maniera e per via istintiva, psicosomatica.

Ecco dunque questo mio ossario divertente e commemorativo, dunque irriverente. Una specie di personale  museo dell’innocenza di un tempo tramontato e compiuto. Sepolto. Un perfectum direbbe Emanuele Severino.

Così selezionate e ricondotte a questo colpo d’occhio su un unico istante diviso in più raccolte, le esumazioni conservative trovano unità di appartenenza.

Per far di meglio, dovrei ora mettermi a scrivere musica nuova con altri mezzi, tirar fuori brani di maggior pregio tecnico stilistico attingendo al senno di poi, all’esperienza, a forme di intelligenza più evoluta, e, perché no, artificiale. Ma non lo farò.
Il mondo è già pieno del meglio.

Pensieri bizzarri e introduttivi su “Incipit e Coacervi”

Qualche confidenza introduttiva e interstiziale.

Una specie di prefazione

Io sono vittima di una circonvenzione fantasmatica subita in tenera età a causa degli agguati che i suoni della musica vocale e corale, insieme ad altre selvagge o organizzate forme di vibrazioni, mi hanno teso in angoli imprevedibili, un sortilegio di cui sono rimasto fatalmente prigioniero, e in seguito al quale ho iniziato a provare sentimenti di venerazione per il mio aguzzino, a cercarne la seduzione costante che confermasse ogni volta la dedizione, dunque la detenzione. Senza sbarre però. Così che Euterpe potesse frequentarmi e affascinarmi senza regole e visite programmate, e io potessi dire la mia in scena.

Quindi musica, ritmi e armonie mi hanno stregato fin dalla più tenera età. Dai coperchi delle pentole, alla melodica, dalla “ghitara” richiesta al Bambin Gesù quando ero alla Montessori (ma la correzione della maestra sulla letterina mi incupì), alle armoniche a bocca marchiate Honner, cromatiche e non, alla melodica. E poi su, su, fino al pianoforte acustico in casa, all’organo liturgico nella chiesa del Villaggio Falck, prima l’Hammond elettromeccanico a cui d’inverno si congelava l’olio, poi quello con i suoni campionati, che funzionava sempre, imperturbabile e imitativo. Nel quartiere sestese accompagnavo il canto assembleare sfidando l’urlo dei forni delle acciaierie appena fuori dal tempio, lì, a due passi, sulla scorta di quanto avevo imparato in seminario. Ma lo strumento indimenticabile conficcato nella memoria è l’organo a canne a trasmissione meccanica “Fratelli Zordan” di fine ‘800, sul balcone ligneo sopraelevato della chiesa, ex castello, di Grancona, nel cuore dei colli Berici, terra di origine  dei miei genitori. Dentro il “castellaro” vuoto e silenzioso, andavo a rifugiarmi, nelle giovanili estati, a far dilatare il petto dei mantici dell’antico strumento e a nutrirmi di suggestioni impagabili, mentre in quei pomeriggi assolati, sulla sommità della collina, intorno si creava una cavea di cicale assordanti. Assordanti come i grilli del buio che anticipava l’alba, in cui mi immergevo, desto ed euforico. Ecco alcuni dei miei brodi primordiali, popolari e liturgici, i frammenti della mia ontologia, del mio apprendistato.

Ovviamente tutta la faccenda delle fascinazioni musicali e degli assedi vorticosi dei suoni vocali nella mia testa trova le sue premesse profonde e ancestrali nei labirinti dei caratteri ereditari custoditi nel ceppo familiare da cui provengo, nei creativi giochi delle continuità genetiche.

Alle elementari (cinque anni rigorosamente montessoriani) una maestra prima di iniziare le lezioni mi faceva cantare “Bella tu sei qual sole…” e piangeva a dirotto. Ma non finiva lì. Quando nella vicina chiesa si celebrava la messa in suffragio del fondatore delle acciaierie e ferriere, venivano a prelevarmi in classe, mi vestivano di bianco, e mi lasciavano libero di volteggiare, solitario come un’aquila, con la mia voce d’argento, con data di scadenza, durante la liturgia. E c’erano sempre regali per me.

Alle scuole medie, frequentate per buona parte nel seminario di Masnago, ero voce bianca nel coro.
Ero un contralto, e con il mio miglior socio di sezione, invidiavo i soprani perché arrivavano più in alto, e noi due si provava ad andare sopra il “Re” cercando di non fare fatica. E dopo la prima prova a 5 voci di un “Tu es sacerdos in æternum secundum ordinem Melchisedech” di cui non ricordo l’autore, fu come riconoscermi allo specchio, da buon primate, cogliendo le estremità di una gioia improvvisa che miracolosamente mi passava accanto e che non avrei mai più voluto abbandonare. Quella fu la volta in cui i fili dell’arazzo corale, con cui avevo costruito insieme ad altri pueri cantores l’ordito nascosto, mi catturarono e legarono per sempre ai loro intrecci.

Una volta perso il mio fanciullesco metallo vocale, unico, e la muta della voce sentenziò quanto fosse breve e irripetibile la vita di quella pasta sonora, c’era l’adolescenza ad aspettarmi, nella mia periferia della città delle fabbriche, con altre occasioni per voce e strumenti, anche rock, pop, e musica in chiesa con batteria basso chitarra a organo, con 50 bambini che solcavano e fendevano l’aria come aratri vocianti con le loro lame indistruttibili.

E alle superiori, in bagno, con alcuni compagni di classe, non ci si ritrovava mica a fumare, ma ad organizzare, nei brevi intervalli, cori all’unisono (massimo due voci, se proprio) a commento delle vite immaginarie di professori scelti, con testi in bilico tra il granguignolesco e le adolescenziali provocazioni, e musiche inventate lì per lì. La soddisfazione arrivava al termine delle migliori trovate, ma ci inquietava il pensiero che certe filastrocche potessero giungere all’orecchio dei docenti selezionati.

Quanti incipit, quanto suono lungo il bordo delle prime peregrinazioni raminghe. Poi il coro la Miniera. Un’altra storia, un arcipelago con tanto di metamorfosi, un viaggio irripetibile, una fornace dove ricercare e dare un suono ad alcune idee del canta sed ambula di agostiniana memoria. L’humus popolare del mio scrivere e cantare per decenni, un work in progress in continua mutazione, un cantare artigianale di contesto, fatto e cantato lì, sul posto. E lo stesso posto non è mai lo stesso: metamorphosis is coming.

Non sono sicuro se quanto vado scrivendo sulla soglia di queste pagine di musica da cantare possa essere considerata una vera e propria prefazione, sono però certo che qualcosa devo  scrivere con il pretesto di una prefazione, perché una volta deciso di trasformare oltre quarant’anni di manoscritti musicali – destinati in origine e quasi totalmente alle voci del mio laboratorio corale amatoriale – in pagine in bella copia, non voglio correre il rischio di affidare alla sola esposizione di brani corali, con tutti i loro limiti,
il compito di esaurire un pensiero in sottotraccia. Un pensiero che non necessariamente li motiva, semmai li affianca, spesso li supera. Quindi mi tocca scrivere, imbandire una tavola, essere cuoco e cameriere, inventarmi un menu politematico e destreggiarmi con i sapori, anche improvvisando. Far intravvedere a intermittenza una sinossi mitobiografica alla Bernhard, lungo tracce e indizi di un apprentissage del molteplice, alla Deleuze, maestro indimenticabile che mi ha aiutato a scoprire i miei ritornelli.

Sarà contento Giancarlo, ex corista scomparso nel 2014, che già ai tempi del nostro primo cantare mi invitava a digitalizzare gli spartiti e archiviarli in buon ordine…

Una postuma corrispondenza d’affettuosi intenti.
La mia scrittura musicale, quasi esclusivamente corale, e destinata alla mia formazione a voci miste, non ha mai voluto prescindere dal contenitore psicofisico di relazione e di prossimità in cui poteva essere riprodotta.
Un limite?
La marginale intensità. Il luogo promiscuo. I riti da piccolo villaggio vissuti in modo sanguigno e necessario, un angolo remoto che educa e predispone a scoprire le città universali e quelle invisibili.

L’appartenenza a tale contesto, unita ai tratti personali e ai processi di individuazione, ha condizionato forme di rappresentazione rapsodica ed eccentrica delle cose, una idealistica adaequatio rei et intellectus, il gioco inebriante delle connessioni tra le mie concezioni di pensiero e prassi, teoria e pratica, che alla fine ha superato il dualismo (spinozianamente), giocando a identificare la mente con il corpo e viceversa, in tempo reale.

Sulla superficie del racconto cantato vagano solo schegge dell’enorme sommerso, che è tutto il mio realismo fatto di lavoro e attività extramusicali, irrorato di letteratura e filosofia dell’amatore, ovvero fantasmi di passaggio, notturni, provenienti dai labirinti carsici del territorio e delle sue relazioni.

Nessuna avanguardia, nessun sperimentalismo musicale. Non mi riguarda per prassi e mestiere, pur non avendo mai rinunciato, e con piacere, ad accostarmi periodicamente all’ascolto di musica di ogni tipo, anche contemporanea. I brani che ho scritto negli anni sono graffiti di contesto, evidenze formali  di dedizione analogica e organica, come tracce del passaggio di un pensiero randagio
in carne ed ossa su altre cose in carne ed ossa. É il mio ibrido vagare di palo in frasca, da rapsodico flaneur per andare in monade.

Ero attratto dalla ricerca del possibile rapporto – forse pretestuoso – tra realtà quotidiana e cantabilità interrogativa, anche spaesata, che fosse meno cedevole nei confronti di certa retorica del cantare insieme, per non nascondere forme di tormento, pur nei disegni rassicuranti dell’armonia tonale. Mi sentivo impegnato a bilanciare quel solitario atto individuale di scrivere musica su pentagramma tenendo uniti la causa e l’effetto, attribuendo un minimo di credibilità alla rappresentazione artistica, animando nel contempo forme di collettività attiva e militante.

Le estrazioni tematiche vagamente popolari, rituali o liturgiche, arcaiche, erano già dentro l’humus quotidiano territoriale e psicologico delle frequentazioni, delle interazioni, delle relazioni molteplici, rilette e strappate via con impeto e impulsività.
Il luogo era coacervo già in sé, fortemente connotato da variopinte saghe familiari e dalle odissee delle ondate migratorie interne all’Italia, dalla presenza invasiva della grande acciaieria catalizzatrice di uomini in cerca di lavoro, provenienti da altre regioni e province. E poi il sound diurno e notturno, gli effetti speciali, i tuoni e fulmini, e i fumi. Il mito e la tragedia greca, Apollo e Dioniso a spartirsi il bottino tra la folla camuffandosi l’un l’altro con l’inganno. Discese nel mondo infero e risorgive.

Pasolini, nell’estate del 1967 decise di ambientare in quei luoghi di sirene, operai e forni, il finale del suo film “Edipo Re”, coinvolgendo anche alcuni di noi, allora fanciulli, a far saltare un pallone  sugli asfalti tra le fabbriche con Ninetto Davoli, spirito guida e angelo di Edipo accecato.
Un’intuizione geniale, una forma di ucronia dalle letture multiple, che unisce grecità, tragedia e contemporaneità.  Mescolanza di linguaggi. Il regista sestese Carlo Pozzi, assistente di Ermanno Olmi, catturò a sua volta dalla scena di questo teatro mitico e violento scene di quotidianità, girando metri e metri di pellicola per confezionare i suoi “diari sestesi”, oggi patrimonio filmico del Fondo Pozzi, restaurato e digitalizzato.

Anch’io mi sono abbandonato all’ebbrezza del canto popolare pasolinianamente. Fu alla fine degli anni ‘70 che un mio allievo che cantava in un coro popolare maschile diretto dal padre (e ai colloqui con i genitori, con lui si parlava solo di cori) mi regalò una musicassetta dei Crodaioli, che non conoscevo. Conteneva i canti del  “disco” numero 3. Fu un’altra di quelle rivelazioni vitali che si scolpirono a caratteri lapidari nella mia giovanile pietra porosa, subito, al primo ascolto. Lo scalpello raggiunse la massima incisività
con i colpi del disco numero 4, che conteneva i canti della vena ambientalista di Bepi de Marzi: inevitabile che vibrassero in me le consonanze tra la Arzignano delle concerie e la Sesto San Giovanni delle fabbriche. E così il mio Arvo Pärt delle prealpi vicentine vibrò un dardo delle contaminazioni con indimenticabile veemenza. Sentivo riverberare nell’aria il misticismo dell’estone e l’apocrifìa del cantastorie veneto, ciascuno con la sua passio secundum…

Poi si cambia pelle, come tutte le serpi. Resta il cuore e tutto quello che ci sta intorno, riconoscenza compresa e affabili ricordi. Anche la mia pietra ancestrale dalla struttura calcarea, come quella dei Colli Berici, mio utero genetico, era destinata, attraversando stagioni e intemperie sonore di ogni tipo, a indurirsi nel tempo, a cercare altri pungoli interiori e martelli filosofici.

Detto questo, viene fuori che non sono un musicista, sia chiaro. E’ successo però che la musica si occupasse eccessivamente di me e si umanizzasse per contaminazione, ovvero, che io la lasciassi fare, mentre a sua (e a mia) insaputa io la antropizzavo all’occorrenza fin dalla mia più tenera età.  Certo, posso affermare perentoriamente e per farla breve, di essere musicale. Ma non ho voluto “fare” il musicista.
Ho evitato, dapprima inconsciamente e poi consapevolmente, di cedere ad una specie di disagevole impasse ricattatorio che prevedesse di dovervi appartenere formalmente, ufficialmente, esponenzialmente, con vezzi e atti dovuti e cliché linguistici e argomentativi. Insomma sono scappato dall’idea di farmi suddito di un regno che identificasse ciò che già mi apparteneva a modo mio, rifiutavo la consegna del pensiero a folgorazioni e dogmi emozionali della musica, perché capivo che la verità, se verità c’è,
non si annidava lì, e i luoghi comuni vi proliferavano alquanto.

Quindi ho potuto giocare senza freni con le suggestioni musicali senza rinunciare a bizzarrie e personalismi di sorta. Un’anticamera prefilosofica, piacevolmente piena di inganni si sa, un intrattenimento irrinunciabile per cercare di andare da qualche altra parte. Un effetto dei caratteri ereditari, che non mi ha impedito di essere venerante e sommamente impegnato ad ascoltare e studiare protagonisti della musica dei grandi consensi, passando da Bach a Battiato senza alcuna prudenza. Solo per fare un esempio a parità di iniziali. Ci sarebbe tutto un alfabeto.

Era dunque inevitabile abitare assiduamente il mondo dei suoni, vivere quella relazione in una dependance delle frequentazioni libere, con un’amante interlocutoria, per vie autarchiche, facendo in modo che quel contatto lasciasse macchie visibili, orme d’inchiostro, tracce di quel viavai trasformate poi in manoscritti.

Il fatto che non potessi farne a meno avrà alimentato una predilezione, non una resa incondizionata. La frequentazione, pur assidua e appassionata, il dolce naufragar, non poteva suggellare la totale consegna e abbandono, perché ho sempre chiesto a questa “passione” di lasciarmi invadere dai miei impulsi immaginifici e da intime sollecitazioni con cui poter rivendicare una necessaria autonomia della conoscenza che non disdegnasse la mia simbiosi con l’universo, dentro una atmosfera quasi filosofica, sicuramente letteraria. Anche perché, a dirla tutta, credo di aver scritto più parole su carta che musica sul pentagramma.

Mi fermo qui. Si trattava solo di entrare in questa raccolta con un incipit di parole, come piace a me, infilandomi in un pertugio, una breccia qualsiasi per confezionare coacervi discorsivi più o meno attendibili. Non c’è bisogno di scomodare Manganelli per svelare quanto sia menzognero lo scrivere. Per altre notizie, un po’ meno venate di fantasia, ho affidato il compito alle pagine di curricula formali, qui inseriti. Più importante è il viaggio parallelo, saperlo inventare, e reggerlo e viaggiarci sopra avanti e indietro come in una spirale affabulatoria che scegliamo fra le tante possibili, perché ci sembra quella irrinunciabile. In questa raccolta di canti mi sono permesso anche di scrivere qualcosa a commento di ciascun brano, consapevole di aver taciuto probabilmente i dettagli più utili e interessanti, anche perché non si può discorrere e puntualizzare all’infinito su qualcosa che non ti appartiene più se non per come la vedi modificarsi ad ogni sguardo. Puoi tenere la catena lunga con le tue cose, ma alla fine conviene spezzare il cordone e lasciare andare tutto, tanto prima o poi ti accorgi che quella che tira dall’altra parte è un’altra bestia rispetto a quella che sei convinto di tenere al guinzaglio.

Se per molti, che ho anche conosciuto, viaggiare sul “pianeta musica” nelle più svariate forme ha significato strutturarsi secondo ortodossia, per me ha voluto dire destrutturare il cammino, mescolare il moto, privilegiando l’ondivago, l’intuitivo, tener viva l’occasione raminga, l’incontro con le persone, il territorio, il pensiero sociologico, la militanza idealistica, il lavoro di formatore, scovare in certe forme di contingenza altre facce dell’arte di cantare e di scrivere, con persone incontrate casualmente e coinvolte a prescindere da specifiche qualità vocali o musicali, rinunciando così, va da sé, a correre in circuiti troppo accademici, per godere dell’impuro, del gesto periferico, popolare, da guitto che sta a cavalcioni del bordo e poi ci corre sopra. L’informale e il preformativo, tutto tenacemente perseguito con grande disciplina, ma nella psichedelia dell’ars combinatoria e della teoria dei giochi. Non per gusto spocchioso della separatezza fine a sé stessa, ma per la salvaguardia dell’incipit primitivo, personale, si trattasse anche di un capriccio o di una debolezza del vagabondaggio mentale, delle divagazioni di un pensare ramingo.

E non sarò mai abbastanza grato a strumentisti bravi e geniali che hanno sempre accolto generosamente le mie richieste di coinvolgimento, e riconoscente per gli incoraggiamenti spassionati ricevuti agli albori del mio viaggio da musicisti di rango. Così come ho imparato a considerare altrettanto utili e vitali l’indifferenza e i toni liquidatori. Di Maestri ce n’è bisogno, sempre. Per me il più grande è stato Emauele Severino, che per la Filosofia abbandonò la musica.

Ma tornando alla musica manoscritta, a tutto l’inchiostro con cui ho disegnato macchie su pentagramma, velli screziati di greggi vocianti che sto pian piano conducendo all’ovile per la tosatura digitale, pagina dopo pagina, sono consapevole che ci vorrà tempo per finire il lavoro. Un baule emblematico ed eterogeneo, di cui rivendico, con il senno di poi, tutta l’ibrida bizzarria e la congerie di appigli utilizzati per orlare la superficie delle pareti su cui ho voluto arrampicarmi. Soprattutto quando si trattava di specchi.
Effetto di dedizione esercitata non certo per creare qualcosa di nuovo e di memorabile, per carità, nessuna presunzione da quella parte, ma solo per far sopravvivere il fanciullo nel regno, perché come ho avuto modo di dichiarare in un mio canto (Aion), parafrasando il fanciullo eracliteo di Nietszche: “di un fanciullo è il regno, frutto eterno del suo gioco”.

 “Incipit e coacervi”, mi è sembrato il miglior cluster terminologico di sintesi per contenere il pastiche di richiami, rinvii, rimandi, che risuonano in questo lavoro del vagabondaggio ramingo e ambiguo come piace a me. Poi mi è venuta voglia di tormentare ulteriormente il viaggio interno alle pagine con qualche ciliegina di sommità, a segnalare arbitrariamente degli spartiacque tra gli insiemi dei brani: ecco allora i luoghi del sacrificale, del sacrosanto e del sacripantesco. Questo viaggio della stravaganza corale che qui ha inizio, penso proseguirà con altre raccolte, sempre che mi sostenga e resista la convinzione che, in fondo, potrebbe valerne la pena. Oppure, sempre che mi sostenga e resista la fanciullesca ostinazione di voler onorare la festa arcaica o il piacere di attaccare al muro fotogrammi in bianco e nero di qualcosa che riemerge in questo eterno presente.

Renzo Bertoldo
Marzo 2024

Renzo Bertoldo

Marzo 2024
Stravaganze e divagazioni sull’incontro tra parole e musica in “Incipit e Coacervi”

Le parole tra significanza e risonanza

Parole, parole, parole, cantava Mina mentre Alberto Lupo svenevolmente la circuiva con una voce basso baritonale. E di parole sono piene anche le canzoni qui raccolte. Evitare di far ricorso alle parole è impossibile. Preferire i fatti alle parole produce una semplificazione ingannevole. Si danno parole al pensiero anche nel silenzio e se ne producono clandestinamente anche nella più intensa operosità.
Non esiste altro modo di pensare o tacere o vivere se non quello di darsi in pasto a un testo.
Quanto al cantare poi…

Wittgenstein con il suo noto aforisma sulla convenienza a stare zitti quando non si sa, ha dovuto pur dirlo e scriverlo.

Detto questo, sono pronto ad esibire un po’ di parole a mo’ di prologo prima di mettere a disposizione, in buon ordine, tutti i testi dei canti di questo coacervo, anche le parti in lingua, traduzioni comprese. Rinuncio però scientemente ad entrarvi specificamente con smania illustrativa. Di fronte alla mia vetrina di strofe e ritornelli di varia natura, sfilo via veloce mirando in tralice il mio corpo che passa riflesso sul vetro e da buon girovago sono già altrove, seguendo qualche mio pensiero periferico sulle parole che si bagnano di suoni immolandosi per annegamento. Non credo infatti che i testi qui ospitati e suicidari meritino di essere trattati con particolare attenzione filologica, letteraria o esegetica, preso atto che sganciati dai suoni a cui li ho arbitrariamente affidati non mi interessano più di tanto, a parte quelli d’autore, che però sono nati per essere solo scritti e letti, e a parte certi agganci o fondali tematici impressionistici o espressionistici alla cui costruzione i testi collaborano.
Pur cercando quindi di stare alla larga da sentimenti di eccessiva indulgenza nei confronti di questo prodotto, anche se si sa che ogni scarrafone è bello a mamma soja, qualche digressione me la concedo, sebbene la messa in scena della raccolta, gli azzardi argomentativi abbozzati, la veste grafica, il disegno di copertina, la trasformazione alchemica dei manoscritti in file digitali, non devono deporre a favore di chissà quale valore aggiunto diverso dalle cose in sé che qui si vedono. Deve restare intatto il taglio diaristico, artigianale e locale. Diagnostico e pragmatico. Nessun messaggio. Nessuna trama. Solo atmosfere da diario di bordo, fogli di uno scartafaccio, blitzbücher, journal…

Tutta questa organizzazione del lavoro non inganni. Si tratta pur sempre di un intervento conservativo di quel che c’è o c’è stato.
Il pensiero che ho lapidariamente scolpito con parole sulla quarta di copertina dice tutto.
O la dice lunga in breve. 

Conosco il mio stigma grafomane, con le sue divagazioni al seguito, che tengo a bada come posso, ma a volte no, probabile dunque che mi infili in sequenze argomentative ad incastro perché ho altri buoni ed estranei motivi per dilungarmi qui, a prescindere da una vaga idea di partenza.
E i motivi potrebbero essere almeno due.

Il primo riguarda la ghiotta opportunità di scrivere quello che penso, in generale, del rapporto  tra musica e parole in un canto.

Secondo, perché mi gioco un altro round di testo scritto per equilibrare lo strapotere delle pagine con pentagramma, improvvisando a destra e a manca non necessariamente su questo lavoro, da cui tento di tenermi po’ alla larga, o a debita distanza, perché intuisco cosa può produrre il senno di poi su una fatica conclusa, tanto più se affonda le premesse in anni lontani.

La perdita di immediatezza fenomenologica cederebbe a favore di una mediazione logica, ovviamente troppo a favore.

Ciò non toglie che, in prima istanza, la mia mano, la medesima che li ha scritti, i testi li tiene per mano a suo modo o per le unghie, e si tratterebbe di un intimo e scontato valore affettivo, ma in seconda, subito dopo, la mia mente dice che finalmente me ne sono liberato, cedendoli a una musica, a un suono del momento. Non ci penso più. Se poi fossi tentato dal ripescaggio del già fatto, spinto dal richiamo incontentabile del restauro e della revisione, riaprendo dunque i giochi, mi verrebbe sicuramente voglia di rimescolare le carte e rilanciare i dadi. Tutta un’altra musica, perché il momento, per l’ennesima volta, sarebbe un altro e diverso.

L’esito delle scritture musico-testuali di questa prima raccolta (e delle successive se verranno) sono un tipico prodotto di un lavoro fortemente individuale, anacoretico, separato, che avverte però il legame della parte con un tutto, piccolo o grande che sia, con un luogo e le sue determinazioni che lo popolano o lo invadono, che gli si contrappongono lo divorano o se ne lasciano sopraffare.
L’immagine della confluenza tre le parole e la musica dentro una fornace solitaria è comunque simbolo di un crocevia di materie prime che arrivano da chissà dove, che si trasformano e che restituiscono il prodotto: antico processo ante litteram di economia circolare, di contaminazione e interazione in un gioco di ruoli e riutilizzo di energie in altre forme

È il territorio empirico e trascendentale, ovvero il crocevia del vivere, dell’agire e del pensare ad avere aperto brecce nel tentativo di portare altrove una parola cantata che si illude di rappresentarlo nel suo grumo imperscrutabile, che si ribalta in un inconscio individuale che poi vuole emergere, altisonante, per cercare di trasformarsi in un rito collettivo da lanciare nello spazio.

Sto probabilmente e palesemente perorando la causa dei testi di qualità scritti, letti e meditati rispetto al ruolo ancillare di quelli, anche di pari valore, solo cantati.

Esalto e nello stesso tempo ridimensiono le aspettative della contaminazione tra testo e suono, della compenetrazione che li costringe a interagire in forme di travestimento, o denudamento, e apparizione in scena dichiarandosi ciascuno infilato nei panni dell’altro, ovvero con indumenti o pelle da attribuire a forme di apparenza dell’ospite, giochi di proiezione, di rappresentazione e interpretazione, perché si è ancora più estranei nelle forme di interazione tra diversi. Pur modificati quanto basta per reazione chimica da contatto, vince il più forte. L’energia più forte è quella che raccoglie più consenso.

Il consenso si dà alla forza che più appaga e soddisfa al miglior prezzo.

Nel canto delle parole vince il suono, il timbro, l’impasto, le  capacità tecniche di produzione dell’eufonia e del ritmo, la fascinazione dei corpi che emettono le vibrazioni acustiche e le fanno risuonare e della loro teatralità o fisicità secondo codici seduttivi.
Poi l’ambiente e l’acustica.
Anelo alla “parola-corpo”, rizomatica, a vocazione strutturale e strumentale ma non stanziale.
Corpo cavo o pieno, pronto a modificarsi per non cedere al testo, per sottrarsi dal centro del significato, sradicarsi per esaltare le vibrazioni possibili del significante e deterritorializzarsi come un risuonatore nomade. Ci sono cori che potrebbero cantare anche l’orario ferroviario, in nubi di incenso odoroso, in cattedrali metafisiche, con gente che piange dall’emozione e si converte a qualcosa di esoterico battendosi il petto.

Da qualsiasi parte provenga un testo popolare, dotto o di contingente spontaneità comunicativa, vestito con la musica, non può essere oggetto di valorizzazioni aggiuntive artificiose e mistificanti sui contenuti del messaggio. Va preso per quello che è e per la funzione a cui si è docilmente prestato.
Non comprendo certe esaltanti anamnesi di testi solo perché sono ben cantati, ben confezionati, come si trattasse di disvelamenti veritativi, di eroiche esposizioni di interpretazioni del mondo, assegnate honoris causa per la salvezza delle anime, per rivelazioni determinanti, tirando in ballo la cultura con la C maiuscola. Il fattore C.

Meglio commentare le risultanze sonore, impressionistiche, espressionistiche, senza perdersi inutilmente e retoricamente su messaggi e improbabili insegnamenti. Suggestionati solo dal buon funzionamento del brano o da un consenso commerciale o popolare.

E dunque? Un testo ben cantato può assumere valore esegetico superiore a qualsiasi altro scritto di riconosciuto valore filosofico, poetico o letterario? Un borbottio affidato al bel suono può essere messo nel catalogo dei grandi pensieri in sovrapprezzo? Basterebbe dire che il brano piace. Vale la funzione taumaturgica della musica, anche cantata, senza aggiunta di eccitanti nervini sul significato profetico delle parole.

Un testo banale può far furore con una buona musica, ammettiamolo.

Ma diciamo anche che se uno ha veri argomenti da trattare non può scrivere solo canzoni, e non cade nel gioco sentimentale delle perorazioni musicali a favore di un pensiero. In alcuni casi potrebbe valere la pena di aprire altre vie di indagine.

Per esempio la collaborazione Battiato / Sgalambro offre certamente spazi di folgorazione nel gioco parole e musica, accesi sulla soglia di un confine enigmatico, ma i due, ciascuno a suo modo, hanno proiettato anche con altri strumenti i fotogrammi del loro sguardo sul mondo. Sgalambro in primis.
Bisognerebbe avere in casa tutti i suoi libri.

E ancora, tanto per citare un altro caso di genialità inattuale dico: evviva il libro di Buscaroli sull’immenso Bach, ma tolto da certe pastoie di investitura divina affibiategli ciecamente da chi lo vorrebbe ingessare e beatificare a ogni piè sospinto per come accende e manda in fusione le sacre parole nelle mirabolanti cantate da destinare a luoghi e tempi sacri. Buscaroli non ci sta, e rimette il “grande artigiano” sul trono che gli compete, a regnare con la sua prosaica dedizione al lavoro e al sacrosanto ricorso alla parodia.

Una sera ci ho provato. A fare? Questo: stavo cenando sul terrazzo di una trattoria vista lago in attesa di recarmi nel locale teatro ad ascoltare una rassegna corale. Uno dei cori partecipanti, maschile e con repertorio alpino tradizionale, con le sue belle voci trentine naturali, cantava giù al piano di sotto alcuni brani del suo repertorio, mentre la signora che mi serviva a tavola mi confidava tutte le sventure della sua vita contendendo con il coro di sotto il primato sulla scena del mio ascolto.

Ad un certo punto un po’ per sottrarmi al profluvio confessorio della gentile cameriera, un po’ per seguire un istintivo richiamo, per effetto di una decisione improvvisa e non trattabile, mi misi a scrivere su un quaderno, con fantasia provocatoria, ironica e irriverente, una versione completamente modificata dei testi dei brani che stavo ascoltando, traghettandoli in tutt’altro contesto semantico, rispettandone accentazioni ed effetti fonici. Funzionavano alla perfezione. Le conservo ancora. E se qualcuno li avesse sentiti cantare, così trasformati, dalle medesime voci, per la prima volta, ignaro della versione originale, avrebbe sperimentato medesima esperienza di ascolto.

Insisto: vincono la musica e il suono.

Il testo come significato si inoltra in forme di apparente sottrazione e mutazione, per concedersi alla musica come significante, con cui ovviamente deve convivere in simbiosi nel medesimo appartamento. Tutte le combinazioni e reciproche modellazioni non consentiranno alla musica di parlare, ma al testo di suonare.

Le articolazioni del vocal tract non produrranno qualcosa per essere letto, né ascoltato a sé, o addirittura compreso.

Tutto converge alla produzione acustica di un terzo concetto, un tertium datur.

Si identificano come attributi diversi di una medesima sostanza, ma in forma di mescolanza, meglio, di infusione o soluzione in cui i pesi e i ruoli della confluenza non sono però paritari. Non si intercettano chiaramente le parole nel fiammeggiare del canto o non si comprendono tutte? Che importa?

Certo, l’azione tecnica di corrispondenza d’amorosi sensi non può tradire una certa necessaria specularità che deve apparire come fosse innata. Anche testi intoccabili, qui presenti, come “Specchio” di Quasimodo, “La Tigre Assenza” della Campo, “Le Vin des Amants” di Baudelaire, rinunciano a una parte del loro puro bastare a sé stessi, per contaminarsi e concorrere a una forma panica di reciproco riconoscimento
con la voce che canta. Se va bene.

Ma, ça va sans dire, stanno benissimo anche da soli e godono di ottima salute. Nessun valore aggiunto,
a parte l’occasione per divulgarne l’origine e l’autore. Per come la penso io sul gioco di parole e musica: bizzarria, gusto dell’ossimoro, simulazioni, fondali alla Tintoretto come nei due quadri delle sante eremite. Il testo è un di cui tutto intrecciato agli altri fili sul retro dell’arazzo, affinché dall’altra parte, sulla superficie della fruizione sensoriale, si riscontri un clima tematico, e chi ascolta possa tentare forme di aderenza con gli appigli della propria cifra logico linguistica ed emotiva, o fantastico istintiva, risuonando per possibile consonanza.

Anche con pochi indizi a disposizione un ascoltatore ben disposto si mette in viaggio con un suo bagaglio e una sua mappa e si costruisce una rotta, sapendo però che può anche andare a sbattere se si ritrovasse in carenza di affinità elettive. Il rifiuto è legittimo. Definisco la fruizione del canto come esperienza sinestesica di una celebrazione di temi reali o immaginari, suggeriti o suscitati per induzione o suggestione, anche con esiti differenti rispetto all’intenzione originaria del proponente. Cantare è evocare paradossi.

Quanto ai dettagli della cellula primaria da cui è partito il compositore, agli angoli reconditi e intimi del motivo scatenante che ha messo in moto la gestazione del lavoro, bisogna dire che l’amplesso fecondativo della prima ora fin da subito ha dovuto ingaggiare una sfida con la tecnica, con la poiesis secondo procedure. Alla lunga la sapidità di quella spaesata sincronicità primitiva se la dimentica anche l’autore, che deve continuare a vivere e a cibarsi scaricando sulle sue papille gustative le essenze mutevoli di un’esistenza in transito.

Quindi l’unicum in cui convergono parole e musica inevitabilmente depone a favore della seconda, del suono costruito anche attraverso lo strumento linguistico che interagisce con la vibrazione vocale e interpretativa rivelandosi contenitore e trasmettitore. Una volta decisa l’immersione nel senso, o nel genere, nel fondale intuito o scelto o accettato come fenomeno dell’ascolto, le parole possono anche andare a farsi benedire o trasfigurarsi.

Anche perché, in fondo, noi non ascoltiamo un testo altrui, noi sentiamo solo parole nostre quando la musica ci coinvolge. Siamo perfino in grado di modellare parole con musiche prive di testo, dove suonano strumenti che non siano la voce. Potrebbe addirittura infastidirci un imporsi di parole inadeguate, incapaci di dare spazio al nostro silente eloquio che può sconfinare in forme di solitario sproloquio, non percepibile all’udito altrui, ma sommamente e autarchicamente godibile .

E’ già difficile non produrre plagi interpretativi leggendo, figuriamoci sentendo cantare.

Detto questo, la deminutio capitis di un testo affidato al canto non dovrebbe autorizzare un compositore ad utilizzare testi scadenti o ridicoli e mal posti, perché c’è sempre il rischio che si comprendano benissimo ed eccessivamente, parola per parola, in quanto non sufficientemente nascosti o mascherati.

Allora meglio i fonemi o i vocalizzi.

Quanto a me, tra me e me, ascolto estasiato i corali di Bach e non capisco una sola parola (io cerco quelli eseguiti dalle splendide voci del Bachstiftung dirette dal pirotecnico Rudolf Lutz che poi, ahimè, si prodiga senza riserve ad esaltare inspiegabilmente in apposite sessioni i messaggi dogmatici di un presunto Bach unto dal Signore).

Con medesimo effetto catartico mi feci portar via dal vento irresistibile dei Psalms of Repentance di Schnittke cantati dallo Swedish Radio Choir diretto da Tönu Kaljuste senza alcuna traduzione disponibile in quel momento.

Anche la frantumazione testuale di “Sarà dolce tacere” composta da Luigi Nono per 8 voci, da “La terra e la morte” di Pavese, nonostante le ferree intenzioni programmatiche riguardanti il messaggio, va per una sua meravigliosa strada dell’ascolto a prescindere dal testo incomprensibile. Io che amo Pavese, non me ne faccio un cruccio. Se voglio incontrare veramente Pavese, lo leggo. Se devo entrare nel nocciolo dei pensieri, non li affido al lavoro musicale, se non come accessorio che soddisfa il meglius abundare quam deficere.

Infine, per farla breve e quindi concludere, devo dire che la mia esposizione dei testi qui di seguito, riveste solo un’utilità pratica per una corretta lettura delle parole risuonanti, per dare la sponda all’occhio e alla lingua e per sorreggere qualche idea di sfondo.

E poi liberi tutti.

Renzo Bertoldo
Marzo 2024

Renzo Bertoldo

Marzo 2024
I testi delle canzoni

Testi Dei Canti

… del sacrificale

Emma Agnese Hume

Beautiful and as much wisdom girl,

she died of consumption,

with dignity

of twenty-five years old

the thirteenth of December eighteen fifty-six

Emma Agnese Hume il mal sottile che rubò il tuo canto

si è spento fra le spire della morte bianca.

Adesso puoi tornare finalmente a respirare

e cantare sopra la tua collina, a consolare noi

e Jane Wells che pianse il tuo silenzio.

Qual nube d’incenso odoroso si leva nel tempio il tuo canto.

S’allieta cantando la bocca, la lingua si scioglie esultante

come onda fresca dischiusa dal sasso percosso.

(Assai bella e saggia fanciulla, consumata dalla tisi,

il 13 dicembre 1856 all’età di 25 anni)

Journal

Avoir dans le mains un livre et être au coin du foeu…

Pour rêver et tissoner,

voilà ce que j’appelle se sentir confortable…

Après dîné je suis restée quelque temps accoudée

a la fenêtre ecoutant le légere murmure de l’onde et regardant le fanal

qui me faisait une singulière sensation avec sa lumière

un moment si vive et ensuite si languissante…

…voici l’image de la vie, me disais – je à moi même,

Un moment tout brille en nous et autor de nous,

mais nos illusions palissent bientôt.

…Combien de fois je me suis sentie le besoin d’ecrire

ce que pense, ce que je sens, ce qui m’occupe.

… Ce qui ne fait qu’effleurer les autres me blesse jusqu’au sang

Emmène moi dancer

(Avere un libro tra le mani e stare all’angolo del focolare…

Sognare e attizzare il fuoco

questo è ciò che io chiamo “stare bene”

A volte, dopo cena, sono rimasta alla finestra

ascoltando il lieve mormorio delle onde e guardando il faro

che mi ha dato una sensazione singolare

con la sua luce un momento così vivace e poi così languida…

ecco l’immagine della vita, mi dicevo,

per un attimo tutto risplende in noi e intorno a noi,

ma le nostre illusioni svaniscono presto.

…Quante volte ho sentito il bisogno

di scrivere quello che penso, che sento,

quello che mi preoccupa

… Ciò che soltanto sfiora gli altri mi ferisce a sangue

Portatemi a ballare.)

Tanto te ghè sigà e crià

Tanto te ghè sigà e crià

che alla fine de la storia

mi te gò contentà

e te gò portà rènte casa tua:

sora un prà,

un campo tuto macià de mutare e de frape.

La zé ‘na storia tuta cantà

e fin chì ti sì rivà.

…Tu scavavi in un buio corroso e orbo

ciupinara* dal fiato ritorto…

Che viaggio però…

masticavi sedimenti di torba,

tra gorghi e risacche gementi,

respiravi in un grembo di terra madre,

ciupinara, mattino d’Aurora.

*Ciupinara: talpa (immagine filosofica)

(Tanto hai gridato e pianto

che alla fine della storia ti ho accontentato

Ti ho portato vicino a casa tua

in un prato,

un campo tutto tormentato da buche e cumuli di terra.

E’ una storia tutta cantata

e fin qui, sei arrivata).

La Tigre Assenza

Per colline d’oblio, questo passo d’addio.

Ahi, che la tigre assenza, o amati, ha tutto divorato,

di questo volto a voi rivolto.

Devota, come un ramo,

curvato da molte nevi,

allegra come un falò, per coline d’oblio

su acutissime lamine

in bianca maglia d’ortiche,

ti insegnerà mia anima

questo passo d’addio

per coline d’oblio.

La bocca sola, pura

prega ancora voi di pregare ancora,

perché la Tigre Assenza, o amati,

non divori la bocca.

Aurevoir, adieu

Il me souvient encore le froid

Sur la campagne recouvert d’une couche de glace

Le gel faisait eclater le temps de guerre

Et moi? Et toi?

Et mon coeur? Et ton coeur?

Un rien suffit pour recheuffer mon coeur, ton coeur…

Mais bien souvent il ne nous reste que dire seulement

Aurevoir, adieu!

(Mi ricordo ancora il freddo, sulla campagna ricoperta di ghiaccio.

Il gelo faceva esplodere tempi di guerra.

E io? E tu?

E il mio cuore?

E il tuo cuore?

Ci vuol poco a riscaldare il mio cuore, il tuo cuore…

Ma spesso non ci resta che dire soltanto, arrivederci, addio)

… del sacrosanto

Padre nostro

Padre, o Padre, Padre nostro, che sei nei cieli.

Sia santificato il nome Tuo, e venga il Tuo Regno.

Sia fatta la Tua volontà,

come in cielo così in terra.

Dacci oggi il nostro pane quotidiano,

e rimetti a noi i nostri debiti

come noi li rimettiamo ai nostri debitori.

E non abbandonarci alla tentazione,

ma liberaci dal male.

Amen

Gloria

Gloria a Dio nell’alto dei cieli

e pace in terra agli uomini di buona volontà.

Noi ti lodiamo, ti benediciamo,

ti adoriamo, ti glorifichiamo.

Ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa,

Signore Dio Re del cielo,

Dio Padre Onnipotente,

Signore Figlio Unigenito Gesù Cristo,

Signore Dio Agnello di Dio,

Figlio del Padre.

Tu che togli i peccati del mondo,

abbi pietà di noi;

tu che togli i peccati del mondo

accogli la nostra supplica;

tu che siedi alla destra del Padre,

abbi pietà di noi.

Perché tu solo il Santo, tu solo il Signore,

tu solo l’Altissimo:

Gesù Cristo con lo Spirito Santo

nella gloria di Dio Padre. Amen.

Offertorio

Terra, che porti nutrimento

ai semi sparsi dal vento,

sei benedetta dal Signore,

che in te diffonde la vita.

Tu sei per l’uomo altare antico,

del tempo e del sacrificio.

Sopra di te si stende il giorno,

la notte ed ogni stagione.

La spiga di grano,

dopo il raccolto,

diventerà pane dell’ uomo,

corpo di Cristo.

Il grappolo d’uva,

dopo il raccolto,

diventerà vino dell’uomo,

sangue di Cristo.

Magnificat

L’anima mia magnifica il signore

voglio lodarlo, è lui il mio salvatore

perché ha guardato all’umile sua serva

e l’umanità mi chiamerà beata.

Dio è potente, ha fatto grandi cose in me

e santo è il suo nome.

La sua misericordia resta sempre

con tutti quelli che lo servono.

Il Signore ha dato prova della sua potenza,

spezzando il cuore altero dei superbi.

Ha rovesciato il trono dei potenti,

gli oppressi ha sollevato dalla polvere.

Ha colmato i poveri dei beni più preziosi,

i ricchi ha rimandato a mani vuote.

Fedele nella sua misericordia,

non si è dimenticato d’Israele.

Proprio come aveva già promesso in tempi antichi,

parlando ai nostri padri, ad Abramo,

al cuore della sua discendenza,

per tutte le generazioni.

Sia gloria al Padre e all’Unigenito suo figlio,

al soffio della Spirito di Dio,

com’era in principio ora e sempre,

nei secoli dei secoli. Amen.

Varianti opzionali in lingua

Ritornello

It’s in my heart and soul to glorify my Lord

I wish to praise him because he is our saviour

for he watched over his very humble servant

and I’ll be the blessed for all the humanity

Strofe

Diós se ha mostrado a mi en toda su potencia

rompiendo el corazón de los superbios.

Ha derribado el trono de los potentes

los pobres ha retirado del polvo

Il a recouvert les pauvres de biens les plus precieux

les riches a renvoyé les mains vides

Toujours fidèle dans Sa misericorde

il n’a pas oublié le peuple d’Israel

Salmo 30

Tu hai mutato il mio pianto in danza,

ed il mio abito di sacco in veste di festa.

Perché ti possa cantare, con il mio cuore,

inni senza fine.

Voglio esaltarti mio Signore,

perché tu mi hai difeso dai nemici.

Ho gridato aiuto e tu sei venuto a me.

Sottrai il tuo servo al regno della morte

e dalla tomba liberi la vita.

Se all’imbrunire giunge il pianto,

all’alba torna il sole della gioia.

L’ira del Signore dura il lampo di un istante,

Il suo bene tutta un’esistenza.

Cantate a lui perché il Suo nome è santo.

Tu sei stato buono, mio Signore,

mi hai reso forte come una montagna.

Ma se ti nascondi io non so più dove andare:

rivolgi a me lo sguardo che conforta,

dissolvi ogni ombra di paura.

Il mio grido è giunto fino a te,

perché ho bisogno della tua pietà.

Vieni in mio aiuto e riempimi di vita,

cosi potrò innalzare la tua lode,

cantare per i secoli infiniti.

Varianti opzionali in lingua

Rit.

Mon Seigneur tu a transformé mes larmes dans une joyeuse danse,

et mes pauvres vetements, en vetements de fête,

et pour ca je peux chanter

par  mon coeur

hymnes qui n’auront jamais de fin.

Strofe

Tu bondad es grande mi Señor

me ha transformado en una montaña.

Pero si no te busco cómo puedo yo vivir

Dame tu mirada de consuelo   

disuelve todas las sombras de mis miedos.

Si por la tarde me pongo a llorar

al alba vuelve el sol de la alegria.

La ira de Dios dura el istante de un relampago

su inmenso amor para toda nuestra vida

El canto se eleva a su santo nombre.

Viandanti

(Liberamente ispirato al racconto

dei discepoli di Emmaus Luca 24, 13-33)

Come era triste il cuore per via,

prima che Lui camminasse con noi,

prima che Lui rammentasse i Profeti…

Cammina l’anima, là verso Emmaus

Quando le tenebre oscurano i passi

oltre quel buio cerchiamo un chiarore…

Verso la luminosa notte per non smarrirci mai,

la luna piena è cresciuta nel tempo,

giorno per giorno.

Giunti al villaggio, rimase con noi.

Dopo il tramonto, durante la cena,

Lui si svelò allo spezzare del pane…

Cammina l’anima, là verso Emmaus.

Se i nostri occhi non sanno vedere

oltre la fine di un giorno che muore,

quando la notte fa paura,

resta con noi Signore!

La tua parola è cresciuta nel tempo,

giorno per giorno.

Quando la notte fa paura,

resta con noi Signore!

con il tuo pane spezzato nel mondo,

giorno per giorno.

… del sacripantesco

Ambra

Fuori c’è il vento e spinge le nebbie

come velieri in mari di ghiaccio

ombre più scure disperse astronavi.

Nella mia casa ai bordi del bosco

porto notturno base lunare

vorrei sentire una nuova canzone.

Ambra come il sole come la luna

Ambra come il sangue della mia terra

sono tornati gli spiriti buoni

nella foresta amica felice

stanno ballando tra le braccia

di laghi e di fiumi …

Fuori c’è il giorno e guarda al futuro

come un veliero in viaggio nel cielo

nuvola bianca veloce astronave.

Nella mia casa ai bordi del bosco

porto sicuro base spaziale

ogni viandante mi porta canzoni …

Polvere

Polvere prigioniera sopra le cose inaridite

Sopra di noi polvere più nera.

L’acqua di primavera ti porta più lontano,

Pioggia senza respiro, giorni e malinconia.

Così senza parole vai via,

ma tornerai, tu ritornerai

perché la tua canzone non finirà mai!

Febofesta

Ora la notte si fa colore.

Finalmente quest’aria sincera,

dentro il cuore di un nuovo mattino,

davvero già t’incanta l’abbraccio del sole.

Inizia una gran festa,

sboccerà come un fiore.

Non mancherà la musica,

non mancherà il colore.

E mentre Febo salirà vestito di splendore,

incanterà la terra, incendierà le ore.

E scopri piano piano

che la danza si apre anche per te

nel canto nuovo di voci al vento

che si prendono per mano

correndo insieme verso la sera….

T’immergi nell’attesa di un’ora ormai vicina,

nel ricordo dell’amore suona una campana, suona

don don don…

Ecco la sera, viene da lontano.

Finalmente quest’ora di pace

nel silenzio racchiuso in un fiore,

davvero ti rinnovi nel fuoco del sole.

Le vin des amants

Aujourd’hui l’espace est splendide!

Sans mors, sans éperons, sans bride,

Partons à cheval sur le vin

Pour un ciel féerique et divin !

Comme deux anges que torture

Une implacable calenture,

Dans le bleu cristal du matin

Suivons le mirage lointain !

Mollement balancés sur l’aile

Du tourbillon intelligent,

Dans un délire parallèle,

Ma sœur, côte à côte nageant,

Nous fuirons sans repos ni trêves

Vers le paradis de mes rêves !

(L’aria è splendente, oggi: che meraviglia!

Senza morsi né speroni né briglia

ce ne partiamo a cavallo del vino

verso un cielo incantevole, divino.

Come due angeli morsi dall’ansia

acuta che, implacabile, li strazia,

nel vetro blu del mattino seguiamo

di quel lontano miraggio il richiamo.

Mollemente cullati sopra le ali

di un turbine che sale con sapienza,

in un delirio che insieme ci assale,

affiancati in armoniosa alleanza,

fuggiremo, sorella, cancellando ogni

attesa, nel paradiso dei sogni.)

Ali e Corpi

A volte lampi e tuoni

invadono la mente,

catturano pensieri

per prendergli le ali,

le ali di farfalla.

A volte un temporale

si getta nelle vene

e scava nel sangue

finché non trova un varco

per battere le ali,

le ali di farfalla

Ali e corpi,

di farfalla.

Minaresta

Era stagione di frutti maturi

Più bella valle coi prati di sole

Ma venne un giorno con arido cuore

Intorno alla fonte silenzio e dolore…

Ritorna Minaresta, ritorna a cantare

Chi t’ha portato via?

Muore questa campagna ora che non ci sei.

China il tuo capo sovrano potente

È grande la sete di tutta la gente.

Ecco un mattino soffiare Tivano,

intorno alla fonte si danno la mano

Acqua di Minaresta tornata a cantare

Forte del tuo mistero

Corri per la campagna che sempre bagnerai.

Oro Bianco

Some say the world will end in fire.

Some say in ice.

From what i’ve tasted of desire

Im hold with those who favor fire.

(Dicono alcuni che il mondo finirà nel fuoco.

Altri, nel ghiaccio.

Del desiderio ho gustato quel poco

che mi fa scegliere il fuoco)

Non sono candide spine

ma polvere di manna

per intrecciare corone

per ricamare canzoni

d’amore.

Non è cenere spenta

ma fiori, fiori d’inverno

su rami e rizomi da frutto

di questa segreta stagione

del tempo

Non sono lacrime fredde

ma fili di seta lucente

collane di un oro più bianco

al collo di un corpo mai stanco

che danza.

Non è erba nel ghiaccio

ma latte insieme alla menta

nel mio sconcertante giardino

nel grembo di questo mattino

che canta.

Ci sono maschere e voci

nel buio del nostro teatro

cratere dell’ideazione

fantasma di questa canzone

che brucia.

Specchio

Ed ecco sul tronco si rompono gemme,

un verde più nuovo dell’erba che il cuore riposa.

Il tronco pareva già morto piegato sul botro.

E tutto mi sa di miracolo

e sono quell’acqua di nube

che oggi rispecchia nei fossi

più azzurro il suo pezzo di cielo…

Quel verde che spacca la scorza

che pure stanotte non c’era.

Terra Lontana

Ma chissà dove andranno a finire

I sogni di tutta la gente del mondo.

Terra lontana baciata dal sole io ti troverò.

Ma chissà dove andranno a finire

Il sangue, il dolore, gli amici e l’amore.

Terra lontana baciata dal sole io ti troverò.

Ma chissà dove andranno a finire

Le note e gli accordi di questa canzone.

Terra lontana baciata dal sole io ti troverò.

Alter Tanz

Die Hexen tanzen, sie tanzen mit dem Teufel

Aber habe keine Angst, die Nacht wird zu ende gehen

(Danzano le streghe, danzano con il diavolo,

ma non avere paura, la notte avrà fine.)

Ripidi Sentieri

Sopra le montagne, oltre la pianura

Respiriamo increduli inaccessibili distanze

Senza più confini,

noi risaliamo ripidi sentieri,

vertiginosamente veri,

liberi pensieri, desiderabili misteri.

Ad Ovest del Fiume

Ora vorrei raccontarti mio bene

cosa sussurra il profondo sentiero

ad ovest del fiume in momenti di calma

I canti antichi del popolo alato

sono diffusi da un gesto del vento

mentre nell’acqua si perde

il dolore del corpo mortale

E se raggiungo la riva tremante

mi stringo forte alle piccole tracce

di inarrestabili e arcani disegni.

Ad ovest del fiume …

Veleno

Un po’ di veleno ogni tanto, rende gradevoli i sogni

Ma io vi dico: voi avete del caos dentro di voi.

Immota è la mia anima e chiara,

come la montagna prima del meriggio.

Ecco che mi guardano e ridono

e nel ridere mi odiano anche.

Io amo colui la cui anima trabocca,

da fargli dimenticare sé stesso.

E tutte le cose che sorgono in lui

diventano a sera il suo tramonto.

Giri di giostra

Suggerimenti sparsi, richiami sorgivi, autorali o di contenuto.

Trattasi di indicazioni monche e vaghe. Ciascuno in motu proprio si inventi il viaggio e stravolga
il paesaggio, perché ogni volta non è mai lo stesso. Su alcuni brani mi sono permesso qualche breve memoria, ma si tratta di marginali indizi, che ho risparmiato ad altri canti della raccolta.

… del sacrificale

Emma Agnese Hume
Espressioni di cordoglio e di poetico riscatto nel ricordo di Emma Agnese Hume (1831 – 1856) ragazza inglese, recatasi in Italia, a Firenze, per studiare canto. Ivi deceduta per tisi il 13 dicembre 1856 in via della Spada.
Quindi sepolta nella Basilica di San Miniato al Monte (a pavimento, spartimento 2- Tomba 42).

L’epitaffio sulla lapide, fatto scrivere dalla zia Jane Wells, invita a non dimenticarla.

Il brano è composto dal montaggio in successione di brevi quadri tematici, tra loro brevemente staccati,
come a comporre un piano sequenza intervallato da respiri. Il contenuto sonoro dei quadri è polimorfo, in alcune sequenze si sovrappone per moto lineare e poi retrogrado sui numeri e le date dell’epitaffio, oppure rievoca frammenti
di un canto liturgico degli anni 60 “Nella tua santa casa” di Luciano Migliavacca  (1919 – 2013).

L’ordito richiede di addentrarsi con attenzione e con sensibilità sul peso dei temi che si incontrano, e a tratti
convivono, sulle accentazioni e sugli episodi effusivi dei suoni, secondo codici interpretativi personali.

SSAATTBB

Journal

I testi sono estratti dal diario di Matilde Manzoni (1830-1856), figlia del più noto Alessandro, tanto inutilmente invocato in punto di morte.  La pubblicazione (Journal) è stata realizzata da Adelphi 1992 a cura di Cesare Garboli (1928 – 2004) che ha creduto molto nella rivalutazione di Matilde, e della sua mente letteraria precoce e sensibile. Matilde è scomparsa in giovane età nel 1856 a causa del mal sottile. Il brano richiede di disegnare attentamente
le giustapposizioni timbriche e ritmiche al fine di evidenziarne pulsazioni e spaesamenti, tenendo in emersione
le linee di canto di volta in volta individuate.

SSAATTBB

Tanto te ghè sigà e crià

Testo in dialetto del basso vicentino.

Espressione del desiderio perentorio e infine soddisfatto di un’anziana donna che in punto di morte chiede
con veemenza di essere accompagnata e sepolta nella terra d’origine da cui è partita in giovane età per raggiungere la città delle fabbriche, alla ricerca di pane e lavoro, come tanti altri migranti interni. La tavolozza timbrica
da utilizzare è aperta e popolare, a tratti incandescente, con aree improvvise di penombra meditativa o frammenti
che richiedono cristallina leggerezza vocale.

L’ho scritto in seguito alla scomparsa di mia madre.

SSAATTBB

La Tigre Assenza

Richiamo ai temi musicali presenti in “Remembrances” per violino e orchestra di John Williams (1932)

Testi tratti dalla raccolta “La tigre Assenza” di Cristina Campo (1923 – 1977)

Tematicamente, attraverso i testi della Campo, si procede quasi in forma rituale e sciamanica a sfidare i sortilegi
del dolore. Il brano richiede molta attenzione nella messa in opera dell’architettura strumentale originaria richiamata in forme imitative. Particolare cura deve essere riservata alla luminosità del tema e alle arditezze
del disegno, pur tonale, degli elementi portanti e delle trabeazioni che lo sostengono. Le ripetizioni del tema devono godere di variazioni dinamiche opportune, con apertura solenne nel finale.

SSAATTBB

Aurevoir, adieu

Frammenti testuali imbastiti sul tema del conflitto intimo tra esseri umani e di altre forme più estese
di guerra. L’accostamento serrato e imitativo di schegge intervallari ad apertura variabile tormenta la superficie
su cui si affacciano le note e i fonemi.

L’accentazione e la ritrazione dei suoni, da distribuire tra le sezioni rappresentano il focus dell’incedere narrativo.

Scritto durante la guerra del Golfo.

SSAATTBB

… del sacrosanto

Padre nostro

Il canto si avvale di interazione strumentale che detta la matrice delle pulsazioni ritmiche

Organo, pianoforte, SATB

Gloria

Il canto è caratterizzato da movimenti e scale per gradi congiunti a creare profili ondivaghi, con ascese e flessioni costruite per via imitativa e con dialogo tra le sezioni.

SATB

Offertorio

Dopo un iniziale e intima esposizione tematica delle diverse sezioni corali, nella seconda parte le voci si raccolgono
e si lanciano in un dispiegamento sonoro più solenne e incantato intorno al simbolismo della spiga di grano
e del grappolo d’uva. Nel ricordo di una vendemmia tra le vigne di San Colombano al Lambro.

Organo, Pianoforte, SATB

Magnificat

Affresco intenso di progressioni e architetture melodiche condotte su tema classico e luminoso, intervallato da episodi strofici. Il testo è integrato con qualche soluzione in lingua che può essere utilizzata a discrezione.

L’alternarsi regolare di strofe e ritornelli può essere sostituito con esposizione di più strofe in successione, variando l’interpretazione (dinamiche, unisono, lingua straniera, ecc…)

Organo, Pianoforte, SATB

Salmo 30

Sul tessuto salmodiante si illumina in filigrana la pregnanza del testo, integrato con qualche soluzione in lingua
che può essere utilizzata a discrezione. L’alternarsi regolare di strofe e ritornelli può essere sostituito con esposizione
di più strofe in successione, variando l’interpretazione (dinamiche, unisono, lingua straniera, ecc…)

Testo che avevo fatto incidere sulla lapide della prima tomba di Daniela Bertoldo nel 1992

Organo, Pianoforte, SATB

Viandanti

Lo spunto testuale deriva dal racconto evangelico dei discepoli di Emmaus (Luca 24, 13-33), ma il richiamo privilegia un excursus più esteso e contaminato, secondo uno sguardo legato all’odissea umana e agli interrogativi del viaggio. La costruzione vocale e strumentale privilegia il minimalismo degli ostinati e alcune forme ripetitive di ritualità tribale o arcaica. Al canto ben si accompagna un richiamo del poeta spagnolo Antonio Machado “Caminante no hay camino”: Viandante, sono le tue impronte il cammino, e niente più, viandante, non c’è cammino, il cammino
si fa andando. Andando si fa il cammino, e nel rivolger lo sguardo ecco il sentiero che mai si tornerà a rifare.

Viandante, non c’è cammino, soltanto scie sul mare.”

Pianoforte, SATB

… del sacripantesco

Ambra

Brano dai tratti nostalgici nato in un contesto di amicizia con un coro di Riga (coro Caritas, anno 1993)
e come omaggio alla “terra dell’Ambra”, da poco libera e pronta a incamminarsi sul sentiero dell’autonomia.

Al centro del corale si sviluppa una danza fresca e scorrevole, come mimesi dell’apertura a un nuovo viaggio.

SSAATTBB

Polvere

Canto in forma di elevazione assorta e tesa, fremente e catartica, intonata sopra le polveri della città delle fabbriche immersa nel fumo. Fa parte di una serie di brani dedicati al territorio sestese divorato dalle acciaierie e ferriere
fino agli anni 90.

SSAATTBB

Febofesta

Corale meditativo di ispirazione bucolica, con accenni di danza leggera a unire nello zenit i due archi del giorno.

Nel ricordo della campagna e dei fossi ai piedi dei Colli Berici in Provincia di Vicenza

SATB

Le vin des amants

Dall’omonimo testo poetico di Charles Baudelaire, tratto da “Les fleurs du mal”, un percorso chiaroscurale
per sequenze strofiche, differenziate tra loro nell’ordito polifonico e nelle soluzioni poliritmiche.

Il pianoforte interagisce, asseconda e infine assume carattere percussivo.

Un canto che, in postuma dedica, affido al ricordo di Carlo Cremonesi, cantore scomparso dieci anni fa, a cui tanto piaceva interpretare questo brano, forse immaginando anche di passeggiare nella Parigi di Simenon.

Sulla tomba di Baudelaire, nel cimitero di Montparnasse, ci andai con lui.

Pianoforte e SSAATTBB

Ali e Corpi

Breve madrigale che si avvolge enigmaticamente intorno a immagini mutevoli, instabili come metamorfosi in atto.
Il finale, prima soli e poi tutti, si libera in una danza giocata con ostinati e frammenti testuali imitativi.

SSAATTBB

Minaresta

Valorizzazione corale di una fiaba lombarda dedicata alle sorgenti del tormentato fiume Lambro (la Minaresta).

La ricerca elegiaca di una narrazione corale fuori dal tempo, si riversa poi in sequenze di note più tese, che attraversano le varie sezioni in forma imitativa e per progressioni, come una fibrillazione incalzante, prima di giungere al finale che, dopo un breve passaggio tenebroso e austero, sfocia nella cadenza finale luminosa e aperta.

SATB

Oro Bianco

Polittico vocale elettrico e sfaccettato. Gioco di apparenze, abbagli, e fascinazioni, che aprono e chiudono sipari sopra scene mai concluse e mai certe. La tavolozza timbrico interpretativa deve seguire le radiosità e le penombre
che si presentano lungo la scrittura, nel gioco astuto delle maschere concettuali. Il testo principale danza
con un controcanto percussivo costruito con il testo della poesia “Fire and Ice” del poeta Robert Frost (1874 -1963)

SSAATTBB

Specchio

Scavando nel testo dell’omonima poesia di Salvatore Quasimodo (1901 – 1968), si segue il battito vitale della nuova stagione che preme nelle vene delle scorze ancora indurite dall’inverno, ma pronte a spaccarsi sotto la pressione
dei germogli.

Le sezioni corali si scambiano la presenza vocale sul tappeto sonoro, prima di congiungersi nell’afflato finale.

SATB

Terra Lontana

Meditazione corale in forma di brezza leggera, come un incresparsi della pelle, nel brivido delle domande di sempre. Nel ricordo alla “Valle dell’Oro” e del sentiero che conduce all’Abbazia di S. Pietro al Monte (LC), scrigno di arte
e storia millenaria.

SATB

Alter Tanz

Un affaccio dapprima incantato sui resti pietrosi di un sabba notturno. Poi una danza tribale dalle colorazioni accese, dai contorni inquieti, che sembra ricostruire la scena di un convegno notturno, di streghe e demoni.

Da una parte il fascino dall’altra la paura. Le voci ricreano effetti percussivi, turgori vocali e figurazioni di danza, in una ebbrezza che non sa contenersi, che vuol partecipare al gioco onirico che confina con l’incubo, rassicurata però dalla certezza che tutto si concluderà con le prime luci dell’alba.

Nel ricordo degli “Omini di Pietra” del Monte Schöneck a Sarentino (Bolzano), testimonianza di miti e leggende.

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Ripidi Sentieri

Il brano contiene frammenti testuali sulla vertigine, reale e immaginaria, vissuta nelle ascese in ambienti montani, desiderati o ricordati. Le sequenze tematiche delle varie sezioni, si incrociano, si inerpicano, si sedimentano. L’incedere dei passi sui sentieri e l’ansimare del respiro suggeriscono possibili prassi interpretative ed esecutive.

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Ad Ovest del Fiume

I richiami arcaici e i liberi riferimenti a forme di ritualità tribale, tessono, in forma quasi ipnotica, fili
di suoni ostinati e tappeti  ritmico-sonori per ricreare ambigue fascinazioni e interrogativi ai bordi di un fiume
che diventa mondo.

La componente percussiva e quella più vocale e cantata si contendono le chiavi interpretative ed esecutive del brano, aperto anche ad improvvisazioni con piccole percussioni.

In ricordo della Valle dell’Adda.

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Veleno

Mediante il richiamo ad alcune espressioni dello Zarathustra di Nietzsche, il brano contiene figurazioni un po’ beffarde, canzonatorie, in linea con i tratti di derisione per i falsi valori del senso comune che caratterizzano il pensiero sfidante del grande filosofo tedesco.

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“INCIPIT E COACERVI”
RACCOLTA DI CANTI

 

PER CORO MISTO

I

GLI SPARTITI

volume 1

Patchwork Curricolare

Renzo Bertoldo 

Nato a Monza il 18 aprile 1956, fin dalla più tenera età manifesta un profondo interesse per i suoni e per la musica, intercettando e sviluppando un naturale patrimonio genetico familiare. In particolare eredita la passione per il canto dal padre Remiro, corista, direttore di coro e tenore nei luoghi di origine e della sua giovinezza, i colli Berici, in provincia di Vicenza.

Renzo (agli albori affettuosamente soprannominato Renzino o Cencio Balota da un ristretto giro parentale veneto, poi automarchiatosi Larry Lars con un nick name ante litteram e risarcitorio per la firma di racconti seminariali, quindi K in successivi epistolari, e poi finalmente Renzo Bertoldo), ancora fanciullo, inizia a cantare in cori di voci bianche e in forma solistica nelle ricche liturgie degli anni ’60.
Canta per tre anni come contralto nel coro dei pueri cantores del seminario di Masnago, dove inizia anche a studiare pianoforte. Abbandonato l’eremo “masnaghese” si avvia presto, adolescente, ad accompagnare all’organo i canti delle celebrazioni eucaristiche in territorio sestese, all’ombra delle fabbriche, iniziando a coinvolgere molti giovani in forme sempre più ricche ed estese di animazioni con il canto e con la parola. Seguendo un’innata propensione alla ibridazione dei linguaggi e delle esperienze artistiche, si accosta all’espressività corale cercando e coltivando formule più esperienziali e meno accademiche.

Dopo attività di studio presso la Gioventù Musicale Italiana, frequentata alla fine degli anni 70, estrae dalle varie esperienze di animazione sociale (fra cui quella di un doposcuola avviato nella periferia di Sesto San Giovanni) l’idea di costituire un coro. Il coro La Miniera. Nel 1976 diventa docente in un Centro di Formazione Professionale nell’ambito della comunicazione grafica e visiva, dove insegna per vent’anni prima di diventarne Direttore. Negli anni ’90 con il maestro Felice De Benedittis di Milano,
avvia un percorso didattico di sistematizzazione delle competenze di armonia e sostiene l’esame SIAE come compositore anche a tutela del proprio lavoro che nel frattempo si arricchisce di proposte inedite.Successivamente Presso il Centro Professione Musica di Milano (CPM) perfeziona con Mark Harris il suo approccio creativo al pianoforte. Nel 2012 riprende questi approfondimenti con il pianista Mell Morcone, mentre si avvia con alcuni collaboratori a costituire una fondazione per tenere vive le attività formative a favore dei giovani. Attualmente è cofondatore e presidente di Fondazione Daimon, un Ente di Formazione accreditato e riconosciuto per i corsi di secondaria superiore nell’ambito della Grafica e Comunicazione in cui sono confluite le esperienze formative precedenti, e si è consolidata anche l’attività di una scuola di musica (“Albero Musicale”) per il diletto o lo studio di piccoli, giovani e adulti nell’ambito della musica classica e moderna, con sperimentazione di una piccola orchestra, musica individuale e d’insieme, sale prova per gruppi, studio di registrazione.

È scrittore e appassionato di scrittura creativa. Dopo la sua prima pubblicazione Banchi di Nebbia Ed. Monti, raccolta di quadri vividi costruiti con testimonianze di suoi ex allievi, con i propri libri Afonia, Upper Lake, La Tristezza non esiste, (scritto con Silvia Morlotti) ha vinto o si è segnalato in concorsi nazionali.

Insieme Vocale e Strumentale La Miniera APS

Nella prima metà degli anni 70, nel cuore ardente e infernale delle acciaierie e ferriere di Sesto San Giovanni, in un’area ai bordi della città delle fabbriche, muove i primi passi la vicenda di quello che nel 1980 sarebbe diventato il “Coro La Miniera”, che con quel nome e con il suo canto vissuto come “fenomeno estrattivo” avrebbe suggellato così il legame con un territorio enigmatico e magmatico.
L’iniziale spunto è tipicamente aggregativo e inclusivo, tanto più necessitante quanto più si manifesta il tratto periferico ed emarginante del luogo.

Renzo Bertoldo coglie e rielabora questa vitalità conducendola nell’alveo di esperienze sociali e musicali i cui codici gli appartengono. La carica giovanile iniziale della “Miniera” manifesta il proprio ardore creativo soprattutto nelle animazioni liturgiche e in ritualità di canto e rappresentazione scenica e di animazione nella vita del quartiere. Progressivamente, con l’intento di personalizzare e non lasciare ai margini del linguaggio quella tipicità, Renzo Bertoldo, oltre a cercare di tutelare una forma espressiva vocale naturale del gruppo, inserisce nel repertorio brani di sua composizione, legati allo sguardo su una piccola quotidianità che si fa mondo e mito.

Contestualmente, si avvia un’instancabile ricerca di relazioni e rapporti e collaborazioni con altri cori e musicisti, in Italia e all’estero, secondo i naturali slanci che conducono alla ricerca di contaminazioni, rapporti, confronti. Con i propri canti inediti, nel 1988, vince il primo premio al concorso corale della nuova creatività Popolare di Mariano Comense, cui seguono altre affermazioni sul territorio provinciale e nazionale.

Ma ciò che prevale è la fedeltà inquieta e mai conclusa alle proprie origini e a una libertà espressiva che si confronta e si modifica, senza annullare il suo “marchio di fabbrica”.

Dalle relazioni con altri artisti nascono progetti ed esecuzioni pubbliche, trasferte e amicizie, come accade per moltissimi cori (tra i progetti storici: la trilogia “Patmos per doppio coro ensemble strumentale e teatrale, realizzata per la prima volta nel 1993 con il coro Licabella di Rovagnate diretto da Flora Anna Spreafico e riproposta nel 2017, la raccolta di canti liturgici “Missa Caritatis” per coro, organo, pianoforte e tromba, presentata in Santo Spirito in Sassia a Roma nel 2003, le esperienze con il coro “Caritas” di Riga, i brani che rievocano il tempo delle fabbriche, incontri e concerti tematici…

Anche in questi ultimi anni il coro, in ulteriore fase di rilettura della propria storia, non ha mai smesso di tener vivo il proprio fuoco. Due sono gli appuntamenti annuali storici che il coro, con il patrocinio dell’Amministrazione di Sesto San Giovanni propone in città, la rassegna primaverile e quella invernale dove vengono ospitati ensemble corali di particolare valore artistico o simbolico, o gruppi con i quali sono state mantenute relazioni molto forti nel tempo.

Con riferimento all’attività più recente si ricorda il progetto “Canta e cammina” costruito in collaborazione con il Coro “Enjoy” di Cesano Maderno diretto da Raffaele Cifani, ed eseguito il 6 novembre 2022 in terra Veneta nel cuore dei Colli Berici (Vi), poi riproposto il 18 dicembre 2022 nel quartiere storico “Villaggio Falck “di Sesto san Giovanni, insieme al gruppo vocale di Biella “Voceversa”.

L’impronta rituale, liturgica e popolare del coro, viene così tenuta ancora accesa e alimentata, come lampada simulacro, contraltare dei forni di un tempo.

Attuale docente di riferimento per la prassi vocale è Daniela Panetta, cantante jazz e Vocologa artistica di esperienza internazionale.

Informazioni 2023

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